Giovanni Testori (19123-1993): l’arte nella poesia
Giovanni Testori fu critico d’arte, pittore con gran maestria nel disegno, e letterato che si espresse attraverso esperienze narrative, poetiche e drammaturgiche. La poliedricità artistica lo rende autore non catalogabile dalla visione universale, con la peculiarità di dare voce alle lacerazioni umane senza mai tacere la sua la sua radicata cattolicità ricca di sofferenze e contrasti.
S’impone, all’attenzione della critica e del pubblico, intorno agli anni cinquanta raccontando l’umanità delle periferie milanesi, narrando le esperienze e le ingenuità di una gioventù operaia, sfaccendata e un poco ladruncola; nei suoi romanzi i giovanotti corrono in bicicletta, frequentano palestre di pugilato e le signorine sono sartine, commesse, operaie, stiratrici, dattilografe. Tutti cercano fortuna, in un tessuto urbano segnato da un inizio di trasformazione socio-culturale che sarà l’inizio di un degrado sociale privo del gesto pietoso.
Le attività di studioso d’arte iniziano a lasciare le proprie tracce nell’attività di poeta che troveranno la pietra miliare ne I Trionfi. I suoi versi esplorano un nucleo esistenziale, privo d’innocenza; la realtà della vita trafitta da una luce di splendore drammatico recuperato fin dall’infanzia durante le passeggiate, con i genitori, tra le plasticità delle sacre rappresentazioni del Sacro Monte a Varallo Sesia.
La pittura del barocco lombardo è un riferimento costante nella la sua poesia, dove i verso ferma sulla carta la spettacolarità figurativa e scenica, carica d’allarmi gridati da bocche spalancate, deformate dalla miseria e dal degrado sociale. La sciagura incombe implacabile. Testori con versi teatrali racconta la peste, accumulando parole, come già fecero i maestri dell’arte figurativa con le masse corporee in una scenografia affollata di malati e morenti.
L’età, col proprio incedere, ispira versi dalle forti colorazioni ascetiche e mistiche: le parole assumono caratteri d’esaltazione, mentre il corpo letterario assume toni secenteschi, mai dimenticando le strutture artistiche delle sacre rappresentazioni, specialmente nella raccolta Ossa mea del 1983.
Le sue liriche, in definitiva, non prescindono mai da “strepitosa bellezza… immane e sventurato splendore… svergognata oscenità”, suscitando contestuali polemiche.
Dalle note di Edmondo Busani