Iosif Aleksandrovic Brodskij (1940 – 1996)
La poesia di Brodskij fu sempre distante dall’arte del realismo sovietico e dai poeti del disgelo ma sensibile alla tradizione Modernista. Egli ricorda una riflessione d’Isaiah Berlin sullo spirito slavo: fu più volpe che riccio; la nostalgia, per la sua terra, gli rimase sempre nell’intimo, nonostante un’innata curiosità che lo spinse ad innovare il proprio lavoro letterario, sia nelle strutture metriche, sia nei contenuti. Fu sensibile alla tradizione del verso russo (Puskin e Tjucev) ed attento alle suggestioni occidentali (Donne, Eliot)
La sua poesia è una testimonianza in cui lo spazio ed il tempo intersecano la realtà e l’emozione. Le luci poetiche sono screziate da pessimismo e nostalgia, ma lontane dalla disperazione. Il linguaggio è chiaro, preciso e i contenuti sfiorano tratti autobiografici.
Il ricordo di un Nord ai confini dell’Impero si lega a morfologie urbane galleggianti sull’acqua come San Pietroburgo, dove nacque e visse fino agli anni in cui incappò nel rigore sovietico, che lo condannò a cinque anni di lager, per “parassitismo”, poi Venezia e la sua laguna.
Il poeta, attento alla nostra cultura, ci ha lasciato liriche che omaggiano soprattutto Roma e la città dei Dogi. Egli è il poeta dei luoghi da lui percorsi e vissuti; a Venezia, tutto è incerto: Oriente e Occidente, Nord e Sud. Lo spazio è chiuso dalla laguna, cucito da calli e campielli; tra verdi umidità, mici vagabondi e fantasmi d’antiche storie risuonano i fruscii dell’uomo. La città lagunare ha luce morbida, diversa da quella che illumina la Città Eterna: Roma è un caleidoscopio versicolore, uno spazio senza tempo in cui il lettore, insieme al poeta, vive oltre le immagini, lontano dalle realtà che si respirano.
Dalla nota di Edmondo Busani